Consulenza tecnica d'ingegneria civile ed idraulica
Acque antiche - Sommario
Dedicato all'idrotecnica nell'antichità, l'interesse dell'articolo risiede soprattutto nel modo in cui viene trattata la materia. In esso infatti vengono descritte le varie tecniche di attingimento e distribuzione delle acque secondo un percorso cronologico, affrontando altresì argomenti di ordine prettamente idrologico. Un'attenzione particolare è dedicata agli acquedotti romani, che rappresentano il culmine del progresso umano nell'ambito della tecnologica idraulica.
Approvvigionamento - Introduzione
La conquista dell'acqua è stata la primigenia conquista dell'uomo nei suoi aspetti localizzati e temporanei. Non mi soffermo su quale smisurato complesso di miti e di mitologie si sia sviluppato intorno all'acqua e sull'aspetto sacro che essa ha assunto in civiltà e luoghi specifici, per attenermi agli aspetti naturalistici e tecnici del suo uso da parte dell'uomo a partire dall'abbeveratura che l'uomo primitivo condivise con gli animali.
Questo sistema di approvvigionamento era evidentemente proprio dell'uomo cacciatore/raccoglitore, mentre la stabilizzazione di famiglie, di clan, di tribù, cioè la prima elementare urbanizzazione, comportò i primi sviluppi della tecnologia dell'approvvigionamento: dall'abbeveratura diretta si passò al riempimento di recipienti di pelle e di terracotta e al loro trasporto nelle caverne abitate e/o nelle capanne dei villaggi... che fu il primo "acquedotto".
Molto probabilmente già all'inizio del ciclo di sedentarizzazione e di coltura di piante l'uomo scoprì che lo spargimento dell'acqua incrementava qualità e quantità dei raccolti e "inventò" quindi l'acqua irrigua. In queste civilizzazioni preistoriche il problema degli scarichi di acque usate e di deiezioni non si era posto, sia per la scarsità della disponibilità idrica sia per la maglia assai larga degli insediamenti stessi, che consentiva una dispersione dei rifiuti: quando questo problema degli scarichi si affacciò per l'estensione degli insediamenti, fu risolto con l'interramento in fosse o l'allontanamento attraverso fossi e canalizzazioni di non grande rilievo tecnologico. Pertanto, per restringere al tema la nostra attenzione, ci occuperemo solo dell'approvvigionamento, della distribuzione e dell'uso dell'acqua nell'arco cronologico delle antiche civiltà più prossime e consonanti con la nostra (cioè eurasiatiche), prevalentemente sotto l'aspetto dell'uso potabile o, più ampiamente, civile: problema tecnico allora predominante rispetto a quello dell'evacuazione degli scarichi, che attualmente assume aspetti forse prevalenti a causa dell'inversione delle condizioni precedentemente accennate: abbondanza delle risorse utilizzate e addensamento, estensione e progresso degli insediamenti, con tutte le conseguenze ambientali.
La costruzione di opere per l'approvvigionamento di acqua ha interessato tutte le civiltà storiche in quanto presupposto per la vita di qualsiasi centro urbano: esse hanno peraltro lasciato scarsissimi documenti scritti ove si eccettuino gli imperi mesopotamici o l'Egitto faraonico fondato, in sostanza, sulla gestione delle risorse del Nilo.
Un quadro storico sommario del ricorso alle differenti fonti e dello sviluppo del complesso di opere atte a trasferire nel tempo, con serbatoi e invasi, e nello spazio, con acquedotti, la risorsa originaria all'uso umano, può essere solo molto approssimativo, formulato soprattutto in base allo studio di reperti emergenti o scoperti dagli scavi archeologici, che ritrovano - più frequentemente a livello delle fondazioni - opere di drenaggio e che appaiono più evidenti e diffusi dalla prima civiltà greca. I documenti scritti in proposito sono evanescenti fino a quell'epoca, ancora vaghi e di solito indiretti per le civiltà greche, che hanno lasciato qualche trattato scientifico ma di scarso valore pratico: cospicui, invece, per la civiltà romana. Roma infatti rielaborò innovativamente e sistematizzò realizzazioni e intuizioni precedenti, dandone poi piena espressione descrittiva nelle opere di Frontino (curator aquarum a cavallo del I secolo d.C.) anzitutto e di Vitruvio: cosicché forse erroneamente il termine "acquedotto" si focalizza sull'impero romano trascurando tutti i precedenti occidentali per non parlare di quelli delle altre civiltà in altre parti del mondo, assai poco note sotto questo aspetto.
Nel testo e nelle figure di questa relazione sono episodicamente richiamate anche le epoche della costruzione delle differenti strutture idrauliche richiamate.
Le fonti di alimentazione
Le fonti di alimentazione di acqua erano all'origine della nostra civiltà le stesse di oggi, peraltro con vincoli e soggezioni che il progresso della tecnologia ha dissipato, spostando talvolta il relativo ordine di importanza. Richiamiamole brevemente:
C'erano le acque superficiali di ruscelli, di fiumi, di laghi, quindi correnti o pressoché immobili, provenienti dalla precipitazioni apparenti e occulte, da sorgenti (cioè mediate attraverso falde idriche sotterranee), da ghiacciai e nevai in scioglimento. C'erano le acque sotterranee dovute all'immagazzinamento e al lentissimo scorrere di acqua proveniente dalle fonti originarie sovra richiamate e da condensazione entro il sottosuolo, con formazione delle falde, sia a superficie libera (falda freatica) sia in pressione (artesiana), queste ultime per effetto del contenimento da parte di uno strato impermeabile sovrastante la roccia permeabile.
C'erano le acque di sorgente cioè affioranti in superficie dalle falde, in particolari situazioni geografiche, captate alla loro scaturigine ovvero attraverso lavori in sotterraneo: all'inizio nei soli detriti di ricoprimento e successivamente nelle rocce permeate, permeabili in sé o per frammentazione, attraverso cunicoli anche complessi.
Le acque di serbatoio analoghe a quelle dei laghi naturali, erano ottenute immagazzinando acque piovane o superficiali mediante la costruzione di opere specifiche di contenimento: rispettivamente cisterne, dighe e argini.
Avevano infine una non trascurabile importanza le acque di condensazione cioè quelle specificamente provenienti dalle precipitazioni occulte cioè dalla rugiada o dalla brina: la prima in natura captata soprattutto dalle dune sabbiose, particolarmente da quelle costiere in zone tropicali, a formare falde freatiche specifiche; ovvero raccolte dall'uomo in apposite strutture manufatte granulari e avviate alla conservazione o all'uso diretto. In tale situazione (naturale) e nell'altra (costruita) l'acqua origina dalla condensazione dell'umidità atmosferica sulle superfici di granuli, "freddi" rispetto all'ambiente, grazie, in particolare, alle differenze elevate di temperatura fra il giorno e la notte, tipiche di taluni climi.
La prevalente disponibilità di acque di altra fonte è stata comunque pur sempre subordinata alle condizioni climatiche e ideologiche dell'ambiente e dal differente livello - in estensione temporale o spaziale - della tecnologia disponibile.
Fortemente influenzate dalla loro provenienza sono apparse fin dall'inizio le caratteristiche organolettiche e chimiche, anche se analiticamente indefinite, delle acque: pure e gradevoli quelle da sorgenti e da falde, specie se profonde, e di caratteristiche progressivamente peggiori le acque di serbatoio e quelle superficiali. Le caratteristiche di limpidezza, di temperatura, di sapore delle acque ne condizionavano la specifica utilizzazione non essendo nota, fino all'epoca moderna, una tecnica di trattamento meno grossolana della semplice sedimentazione e/o filtrazione: talché spesso si affiancavano acquedotti di acqua grezza (per uso industriale, decorativo e di lavatoio, etc.) e di acque potabili (Roma, Arles, p.es. nei territori romani) mentre antecedentemente era universalmente diffuso l'impiego di acque non pure per usi civili (lavaggio, artigianato, latrine, etc.) e quello di acque potabili da sorgenti o da pozzi, conservate in idonei recipienti (anfore, orci, otri). Tale distinzione fra acque di differente qualità era già stata individuata da Aristotele (384-322 a.C.). A parte infine furono sempre considerate e utilizzate a scopo terapeutico le acque termali calde e fredde, non considerate in questa relazione.
La captazione
Quasi tutti gli insediamenti urbani antichi - da Babilonia, a Luxor, a Roma stessa per non parlare di Ankor o di Tenochtilian, da noi più lontane ma più prossime nel tempo - sono stati realizzati a immediato contatto di corsi d'acqua o di laghi che servivano all'attingimento diretto, da una parte, e alla discarica dei rifiuti, dall'altra; peraltro assai presto la cattiva qualità di tali acque per uso potabile orientò ovunque verso altre fonti e in particolare sorgenti locali.
Le grandi derivazioni dai corsi d'acqua, dirette a bocca libera o con traverse cioè sbarramenti trasversali sul corso principale (in legname o in muratura), erano destinate per lo più all'irrigazione che - come già anticipato - qui tralasceremo (p. es. dal Nilo r/o dai fiumi mespotamici o anche indiani e cinesi). Tali traverse, cioè sbarramenti sfioranti, atti solo a realizzare il sopralzo dei livelli del corso d'acqua per facilitare la derivazione laterale con un canale, risalgono ai millenni a.C. (come quello notissimo di Ma'rib, in Yemen, attribuito alla mitica Regina di Saba). Comunque dighe e traverse furono solo occasionalmente impiegate per usi potabili, ma più genericamente per usi civili (Petra, sec. VI; Aniene, sec. I d.C.; Aqua Claudia) e, di massima, per usi irrigui.
Gli attingimenti per uso urbano avvenivano di solito con recipienti manuali in quanto l'antichità non aveva ancora individuato9 l'energia per effettuare sollevamenti dagli alvei naturali verso canalizzazioni urbane o rurali, esclusi alcuni mezzi ingegnosi, risalenti non oltre gli ultimi secoli a.C. e che richiameremo in dettaglio parlando dell'utilizzazione delle falde freatiche, ma che, per sollevare acqua dai fiumi, trovavano ostacolo nell'instabilità degli alvei e delle sponde relative.
L'esistenza delle falde fu scoperta dalle prime civilizzazioni preistoriche e utilizzata presto e largamente mediante l'escavo di pozzi, e, molto prima della nostra era, con la costruzione di gallerie suborizzontali dette qanate.
Dai pozzi, di norma poco profondi, l'acqua doveva essere sollevata con secchi movimentati da funi o con attrezzature elementari quali secchio/fune/carrucola fissa appesa/contrappeso, oppure sacchi di pelle o di tessuto immersi e sollevati da un estremo e quindi rovesciati, ovvero da un secchio all'estremità di un bilanciere contrappesato.
Successivamente l'attingimento si perfezionò mediante una serie di secchi sporgenti da una doppia catena mossa da una ruota superiore, ovvero disposti su una ruota automotrice, riversanti in collettori posti all'altezza del perno centrale, essendo la ruota stessa mossa da palette periferiche immerse nella corrente (norie): oppure impiegando la vite di Archimede, costituita da una superficie elicoidale ruotante entro un cilindro.
L'energia era originariamente umana o animale (bindolo), successivamente idraulica (norie e mulini ad acqua corrente o in caduta: e anche eolica (mulini a "vele")). Questi impianti, risalenti a qualche secolo prima di Cristo, sopravvivono ancora in ambienti non solo rurali e non solo nel terzo mondo.
Per captazioni continue e abbondanti, e senza impegno energetico, fu realizzata, probabilmente in Persia nel periodo preachemenide (sec. VI a.C.) e forse ancora prima, la qanata (traslitterazione dal persiano; denominazioni diverse in altre culture), cioè una galleria a modesta pendenza ascendente dal suo imbocco a valle, e molto minore di quella naturale del terreno, galleria che, approfondendosi, arrivava a raggiungere gli strati superficiali della falda e a captare e canalizzare le acque intercettate. All'esterno il tracciato del cunicolo è contraddistinto dai pozzi che lo costellano, utilizzati per l'accesso, l'aerazione e l'estrazione del materiale di scavo e successivamente per la manutenzione. Il coordinamento tra l'escavo del cunicolo e quello dei relativi pozzi dimostra conoscenze topografiche e agrimensorie adeguate, oltre, naturalmente, quelle dell'escavo e dell'eventuale rivestimento in sotterraneo. Tale sistema di attingimento, particolarmente geniale, ebbe grandissima diffusione anche in batteria, particolarmente a scopi irrigui, ma anche civili, prevalentemente nel Medio Oriente dove si mantenne e si mantiene ancora in uso in modo esteso (60.000 attualmente in Iran): esempi sono stati ritrovati nella nostra penisola pur in condizioni geomorfologiche meno favorevoli che in Oriente, ove vastissime conoidi pedemontane sono sedi di estese falde pu in ambiente semiarido: p. es. presso Palermo e in numerose arre etrusche, esempi databili a molti secoli prima dell'era cristiana.
Nei millenni a.C. la captazione dalle sorgenti nei centri urbani e nelle immediate vicinanze si limitava a modeste opere di raccolta per l'attingimento e/o di avvio all'utilizzazione immediatamente a valle della scaturigine, opere divenute più complesse, documentatamene, nella seconda metà dell'ultimo millennio. Solo successivamente e in particolare allorché si cominciò a ricorrere a sistemi sorgivi più lontani dai centri abitati, si procedette all'escavo di cunicoli sotterranei, anche molto articolati, per incrementare le portate ed evitare possibili inquinamenti nelle opere esterne.
Nel caso di emersioni di acque artesiane, naturali (in quanto la tecnologia antica non permetteva perforazioni adeguate), la scaturigine era circondata da argini o muri, formando un laghetto (p. es. oasi in zone desertiche).
Captazione si può considerare anche quelle delle acque di serbatoi che si differenziano da invasi o laghi artificiali realizzati sbarrando - fin dal III millennio a.C.- dalle varici vallive naturali con manufatti di terra o di muratura, atti a raccogliere e trasferire nel tempo, attraverso idonei orifizi, acque di fiumi e torrenti; e in cisterne, cioè in strutture murarie o di escavo in rocce idonee di prima realizzazione remotissima, destinate a raccogliere acque piovane di modesti bacini circostanti; gli invasi, secondo quanto già anticipato, di solito non inerenti, come le seconde, utilizzazioni potabili o civili. Le cisterne, analoghe ai grandi serbatoi urbani, cui accenneremo, che peraltro erano alimentati da acquedotti; esse erano universalmente diffuse e in molte zone costituivano, e talvolta costituirono fino all'evo moderno, l'unica fonte di approvvigionamento, sia pubblico (Acropoli di Atene, presso i Propilei: V-VI sec. A.C.), che privato spesso attraverso un sollevamento analogo a quello da pozzi se al disotto del piano campagna.
Non trascurabile era la captazione delle acque di condensazione, raccolte in ammassi di pietrame o di sabbie, o talvolta da brevi qanate superficiali in terreni percolabili dalla superficie e poi canalizzate: un sistema diffuso in zone prive di altre risorse sfruttabili e in climi molto caldi, umidi di giorno e freddi di notte.
Quest'ultima fonte (condensazione) assunse nell'antichità, per insediamenti spesso ricadenti in zone semiaride, un sensibile rilievo che però andò scemando fino ad annullarsi col tempo a fronte di fabbisogni urbani crescenti e in tal modo non conseguibili. Tali metodologie hanno riassunto consistenza - ancorché episodica - nei tempi attuali adottando reti plastiche poste sul percorso di correnti umide, e, addirittura, inseminando, come nuclei di condensazione, cristalli particolari (ioduro d'argento) entro ammassi nuvolosi.
L'adduzione
L'insufficienza delle risorse locali, prevalentemente sorgive, per effetto dell'incremento demografico ovvero per il loro progressivo esaurimento o inquinamento a causa degli sviluppi edilizi sulla superficie del bacino di alimentazione, comportò già nelle prime civiltà greche la ricerca di fonti lontani e la costruzione di opere di trasporto o di adduzione, che specificamente chiamiamo "acquedotto". Nonostante il particolare rilievo anche visivo che tali opere rivestono rispetto alle opere di captazione, non sono chiaramente note opere di trasporto (acquedotti) di civiltà precedenti, sia perché probabilmente sotterranee, oppure superficiali cioè canali, per acqua destinata a usi genericamente civili, rimanendo il molto minore quantitativo di acqua potabile acquisito con il trasporto manuale e la conservazione di appositi recipienti di uso familiare. I cunicoli sotterranei infatti non sono di agevole identificazione e i canali sono facilmente distrutti nel tempo.
Il cunicolo delle qanate appare anche storicamente come struttura di trasporto coeva alla costruzione di canali a superficie libera in terra o roccia all'aperto, ovvero in soluzione sotterranea, scelta quest'ultima in genere prevalentemente per ovvi motivi di sicurezza e di protezione anche igienica. Tali canalizzazioni, di dimensioni anche notevoli per le utilizzazioni irrigue, erano a sezione trapezio se interamente in terra (con eventuali argini) e a sezione rettangolare in roccia, in genere con sponde in muratura se in terra, come era conveniente per acque di uso potabile in modo da poter realizzare una copertura di protezione anche igienica. Esse dovevano correre in superficie con pendenze assai lievi, dell'ordine di alcune unità o decina di unità per diecimila, lungo curve di livello del terreno, con maggiore libertà di tracciato invece in cunicoli sotterranei in genere serviti da pozzi: come per i sistemi complessi, e talvolta di ambigua attribuzione (raccolta di stillicidi, captazioni analoghe alle qanate, trasporto e immagazzinamento ovvero drenaggio e fognatura, connessi a tutte le urbanizzazioni etrusche anche preromane (Veio; Tarquinia; Chiusi: labirinto di Porsenna; Caere, etc.). Ad Atene, attingente alla sorgente Calliroe, i primi acquedotti risalgono al sec. VI a.C. mentre a Roma l'acquedotto Appio risale alla fine del sec. III a.C., quando apparve insufficiente allo sviluppo della città il ricorso alle sorgenti poste al piede dei colli e insoddisfacente il ricorso ad acque superficiali.
Anche per evitare eccessive tortuosità di tracciati, furono "inventate" le opere necessarie per superare discontinuità della superficie terrestre: gallerie anche profonde e prive di pozzi (trafori), sotto rilievi; viadotti negli avvallamenti.
Le prime opere di notevole impegno tecnologico, tenuto conto dell'escavo effettuato con strumenti a mano o con l'ausilio del fuoco (profittando dell'espansione e frantumazione della roccia) o di cunei di legno (fatti rigonfiare con l'acqua), ma di scarsa apparenza esteriore. Il primo esempio noto di un vero e proprio traforo è la galleria (doppia a sezioni sovrapposte, come molte altre, per funzioni ancora non chiarite) dell'acquedotto di Samos, del VI sec. a. C., rimasto a lungo pressoché unico, dello sviluppo di circa 1.000 m. e "firmato" da Eupalino di Megara, descritto accuratamente da Erodono e tuttora percorribile. Esso rimase un'eccezione almeno fino alla civiltà greca classica (Atene) ed ellenistica (Pergamo).
Del tutto visibili sono viceversa i "viadotti", cioè i canali pensili, i cui primi esempi risalgono al III-II secolo a.C., che, nell'esperienza comune, sono emblematicamente gli "acquedotti", particolarmente romani: questi imponenti manufatti a sostegno di uno speco idraulico murario hanno attirato l'attenzione e la meraviglia dei contemporanei e dei posteri.
Tali opere consentivano la continuità, in sotterraneo o in quota, dei canali. Questo sistema di adduzione assicurava il deflusso a superficie libera di portate dell'ordine del centinaio o del migliaio di litri al secondo, correnti con velocità fino a 1 metro al secondo, dalla fonte di alimentazione al serbatoio o ai serbatoi cittadini (castella) da cui originava la rete di distribuzione, sempre a superficie libera (canali minori) oppure in condotte in pressione.
Le strutture di sostegno del canale pensile erano in genere costituite da una successione di archi di conci lapidei o di muratura, su pilastri: strutture orizzontali infatti potevano essere costituite solo da lastre di pietra e, quindi, avrebbero potuto coprire solo luci modeste fra i pilastri di sostegno.
Un altro tipo di manufatto impiegato frequentemente - sempre intorno al III-II sec. a.C. - per superare avallamenti profondi lungo il tracciato dell'acquedotto, al posto dei viadotti (raramente di altezza superiore ai 50 m), ma poco noto, in quanto sotterraneo e malamente sopravvissuto fino ai tempi dell'inizio delle attività archeologiche, è stata la tubazione percorsa da acqua in pressione (sifone inverso), soluzione già utilizzata per correnti a superficie libera fin dal sec. XIII a.C. al posto di canali o di cunicoli. Tale struttura inserita fra due tronchi di un canale fruisce del dislivello energetico fra la quota dell'acqua di un "castello" iniziale (cioè di un pozzetto o torrino di volume modesto) e quella al termine di un altro "castello" (camera di scarico), dislivello corrispondente a pendenze piezometriche, sul relativo tracciato, dell'ordine di unità o decine per mille. Tali valori, circa dieci volte quelli delle canalizzazioni a superficie libera, programmativamente scelti dai costruttori pur ignari delle formule moderne, ma prossimi a quelli che risulterebbero dagli attuali dimensionamenti con ottimizzazione delle perdite di carico. Esempio molto noto è il sifone dell'acquedotto di Pergamo, con più tubi affiancati, risalente al IV-III sec. a.C..
Per evitare confusioni, spesso riconoscibili anche in testi autorevoli, è opportuno a questo punto richiamare che mentre per la corrente a superficie libera determinante ai fini della velocità, e quindi della portata dello spreco, la pendenza del fondo (salvo situazioni localmente o temporaneamente particolari), il moto in pressione entro sezioni chiuse è determinato dalla differenza di pressione fra due sezioni, cioè dalla pendenza della linea piezometrica che identifica la progressiva perdita di energia potenziale della corrente d'acqua per effetto degli attriti sul contorno. Nel moto uniforme a superficie libera la linea piezometrica coincide con la superficie libera stessa, genericamente parallela a quella di fondo; per l correnti in pressioni invece la linea piezometrica è puramente virtuale quale identificazione delle perdite progressive di pressione conseguenti alla resistenza al moto: la pendenza di posa della canalizzazione, cioè dal suo fondo, non ha influenza alcuna sul moto stesso. La legge dei vasi comunicanti, spesso impropriamente richiamata come concetto guida, non attiene alla dinamica di correnti in pressione ma all'idrostatica.
Successivamente, molto più estensivamente, elementi di terracotta di diametri sempre piuttosto modesti (minori di 0,5 m) e in elementi lunghi intorno al metro o poco più. La difficoltà di realizzare un giunto impermeabile, efficace e durevole fra i vari tubi confinò inizialmente il loro uso a deflussi a superficie libera, cioè in alternativa a piccoli canali: la presenza sull'estradosso dei tubi di fori per consentire l'aerazione e quindi un regolare deflusso dell'acqua fluente a superficie libera è assai frequente quando essi sono posti entro strutture di contenimento (intercapedini, cunicoli, etc.), strutture largamente usate per la posa di condotte non solo a superficie libera ma anche in pressione (prive di fori).
L'uso del moto in pressione entro condutture per superare avallamenti naturali o artificiali (per esempio per alimentazione di livelli edilizi alti sul terreno) era, per tubi genericamente lapidei, ostacolata dall'imperfetta tenuta dei giunti fra i singoli elementi, realizzabili solo con manicotti, ovvero a incastro (a "a cordone e bicchiere"), impiegando, quali sigilli, impasti di malta di calce o di bitume ovvero di cenere e olio o filacce e stracci di vario tipo. La degradabilità di molti di tali materiali non ha consentito finora un'analisi accurata delle tecnologie adoperate per la sigillatura: questa doveva essere favorita da particolari profilature ad incastro delle estremità, facilmente configurabili per i tubi in laterizio e, nel tempo, dall'intasamento per azione di depositi calcarei o limosi, attivati anche deliberatamente. Talvolta tali giunti, e talora l'intera serie di tubi, erano contenuti da un manicotto murario continuo di getto, anche a fini di rinforzo statico.
Solo lo sviluppo della tecnologia dei metalli, in particolare del piombo duttile, particolarmente durevole e con bassa temperatura di fusione, e di leghe di questo metallo con rame e stagno, consentì la sistematica utilizzazione di tubi di piombo per le condotte in pressione. Per quanto già impiegati in Grecia intorno al sec. IV a.C., solo Roma, a partire dal III a.C., sviluppò su scala industriale tale tecnologia in officine sparse in tutto il territorio dominato: i tubi erano ottenuti con piegamento di lastre di piombo di spessore fino a 2 cm congiungendo i lembi contrapposti con un condotto di saldatura ottenendo una sezione peraltro spesso "a pera". La successione dei diametri prodotti era normalizzata a partire da 23 mm e fino a circa 30 cm: diametri superiori avrebbero richiesto la piegatura e la saldatura di lastre più spesse e sarebbero stati sensibili ai carichi esterni. I giunti fra gli elementi di varia lunghezza (fino a circa 3 m) erano realizzati anch'essi con saldatura effettuata in loco con lega ricca di stagno di solito sovrapposta, e assicuravano l'impermeabilità sotto pressioni dell'acqua dell'ordine di molte decine di metri, fino a un massimo netto di circa 100 m, anche se tali giunzioni restavano il punto critico della condotta.
L'uso di molti tubi affiancati, fino a dieci o dodici, dell'anzidetto diametro massimo di 20-30 cm consentiva di superare vallate anche profonde da parte di portate dell'ordine di molte centinaia di litri al secondo, quali transitabili nei canali posti a monte e a valle.
Gli stessi tubi, dei diametri minori prodotti, erano usati per le reti in pressione atte alla distribuzione urbana, su cui merita soffermarsi nel paragrafo successivo per alcune peculiarità delle reti romane.
Le officine predette, produttrici talvolta di tubi pregiati di bronzo, realizzavano anche valvole in leghe di bronzo a corpo cilindrico tornito e forato adoperate per intercettare condotte e per regolare le ripartizioni nelle diramazioni e le erogazioni di estremità secondo un modello "riscoperto" solo recentemente in sostituzione di quelle a ghigliottina, meno affidabili. La stessa origine hanno anche esemplari di pompe a stantuffo aspiranti e prementi, talvolta a doppio corpo, con valvole metalliche incernierate o di cuoio: queste erano le uniche apparecchiature di sollevamento adatte all'uso su condotte allora note, di cui cospicui esempi sono stati ritrovati nella navi del lago di Nemi e in pochi altri luoghi privilegiati, risalenti ad alcuni secoli d.C..
I criteri seguiti nella costruzione di tutte le parti degli acquedotti romani recepiscono e sviluppano quelli già esemplificati nei ruderi di civiltà precedenti; essi, in senso lato, sono gli stessi in tutte le province, anche se mostrano successivi miglioramenti tecnologici e costituiscono l'evoluzione di complessi più antichi.
La captazione alle fonti, e in particolare alle sorgenti e dalle relative falde di alimentazione, preferite dai romani, avveniva direttamente o attraverso sistemi di cunicoli assai complessi e progressivamente estesi; il trasporto, a valle - solitamente da una vasca di sedimentazione attraverso le citate opere in sotterraneo, con o senza rivestimenti impermeabili e/o di sostegno della roccia, servite da pozzi a distanza dell'ordine dal centinaio a centinaia di metri; attraverso canali murari in terra sempre coperti e protetti e attraverso canali pensili su arcate. I tracciati erano piuttosto sinuosi per adattarsi alla morfologia senza dovere approfondire troppo i cunicoli o elevare la pensilità dei viadotti. Solo ostacoli eccezionali comportavano gallerie lunghe e prive di pozzi, sotto colli o monti, ovvero tronchi di sifoni con più condotte in pressione affiancate per superare vallate profonde fino a 100 m circa. La notorietà culturale di tali opere di trasporto, quanto meno degli acquedotti su arcate se non dei lunghi sifoni inversi, meno conosciuti ma di maggior impegno tecnologico, esime in questa sede da una trattazione più dettagliata, che esemplifica sistemi molti complessi e presenti in tutto l'impero romano, integrando talvolta opere più rudimentali già esistenti.
La distribuzione
Le reti urbane di distribuzione servite dagli acquedotti esterni, in genere direttamente, erano embrionali fino alla civiltà greca e in questa stessa di norma a servizio di fontane pubbliche (krene, plur. Krenai) e talvolta di cisterne o vasche scoperte; e ciò fino al perfezionamento intorno al II sec. a.C., del sistema romano ramificato di tubi di piombo-castella. Nella stessa epoca si diffusero - prevalentemente presso gli utenti - impianti per il sollevamento (norie) e per l'utilizzazione energetica dell'acqua (mulini), che precedentemente erano invenzione di studiosi (Erone, Archimede) e realizzazioni isolate ed emblematiche, nonché le nostre, le fontane.
I giochi d'acqua
Gli acquedotti romani in tutto il territorio dominato terminavano nella cerchia urbana in un castellum, cioè un pozzetto o torrino di partizione verso l'utilizzazione costituito da una vaschetta, elevata a quote compatibili con quella dell'adduzione. La distribuzione era effettuata mediante una rete di tubazioni di piombo di diametri decrescenti intervallate da castella secondari pensili con vaschetta a superficie libera; questa rete serviva pubbliche fontane, terme e altri servizi collettivi, palazzi imperiali e talvolta anche direttamente utenti privilegiati: infatti il raggiungimento delle singole unità domestiche era estraneo alla cultura antica (ed è stato realizzato solo in tempi molto tardi, alle soglie dell'evo moderno o contemporaneo).
La soluzione del castellum pensile terminale dell'adduzione e della successione di castella sempre pensili di ordine inferiore è specificamente romana, tale da consentire, a valle delle mura cittadine, l'accennata distribuzione in pressione a una pluralità di utenze, igienicamente ineccepibile e fisicamente controllabile. Infatti tali manufatti romani elevati dal suolo, a superficie libera, servivano, attraverso "calici" normalizzati di presa di bronzo affacciati sulle vaschette le condotte in pressione a servizio delle varie utenze, e attraverso paratoie nei castella o valvole sulle condotte, ad assicurare l'ulteriore partizione delle portate in arrivo verso altre diramazioni distributrici. Raramente, almeno in zone di larga disponibilità idrica, al posto dei castella erano disposti serbatoi aventi funzioni di riserva particolari: ad esempio per scopi militari o per erogazioni discontinue, come a Bacoli per il rifornimento della flotta o per uso delle tante terme. Di norma, infatti, la distribuzione era ad acqua fluente, anche se spesso a turno fra i vari utenti, con previsione di sfiori dai castella o dalle utenze, e con scarico dei reflui anche abbondanti nelle fognature. L'uso di serbatoi alimentati da acquedotti pubblici atti a effettuare un compenso fra la relativa portata pressoché costante ed usi anche molto variabili non è frequente negli impianti idrici greci (quasi unico esempio a Megera, del V sec. a.C.) ma lo è invece in quelli dell'impero romano ricadenti in territori aridi come in Africa settentrionale. L'uso di serbatoi, soprattutto con funzioni di riserva e non di semplice compenso, si estese in periodi tardo imperiali, specialmente nell'Impero d'Oriente i più cospicui esempio (con una selva di colonne marmoree, per lo più di recupero) sopravvivono a Istanbul e sono ben noti almeno dal punto di vista turistico.
Si presume che gli antichi non avessero cognizione della funzione della funzione delle superfici libere interposte in reti in pressione per conseguire un ammortizzamento dei moti vari di pressione/depressione conseguenti a manovre comportanti variazioni di portata operando sulle valvole o altrimenti, anche se Vitruvio e Frontino suggerissero già allora di procedere con lentezza nell'immissione di acqua in condotte anche in canali vuoti. Comunque la pratica di effettuare le partizioni da superfici libere, atte anche a evacuare bolle d'aria, era un'intuizione corretta e intelligenti su reti di tubi di scarsa resistenza statica: i castella assai diffusi in città (a Roma 247 secondo Frontino, a Pompei 11 o addirittura 23) esercitavano non solo le accennate funzioni certe di partizione e di derivazione all'utenza ma anche quelle di attenuazione drastica delle onde di sovra pressione depressione, funzione questa identificata nelle torri piezometriche quasi venti secoli dopo, grazie all'elaborazione della teoria dei moti vari in reti anche complesse di condotte in pressione.
Quello che potremmo definire quale modulo di distribuzione, e anche unità di misura della portata, era la quinaria, che calcoli moderni identificano in circa 0,5 litri al secondo: corrispondenti al deflusso di un calice tipo omonimo (23 cm di diametro) sotto un carico d'acqua di circa 12 cm. Peraltro bisogna osservare che questa definizione, effettuata a posteriori, non tiene conto, fra l'altro, della possibile differenza di portata fra il calice standard con efflusso in aria ovvero in una condotta chiusa: conseguentemente la valutazione delle portate addotte e di quelle distribuite, disponibile in letteratura o su epigrafi, non può che essere assunta con larga approssimazione.
Una valutazione globale ha condotto a ritenere che a Roma arrivassero o fossero distribuiti (considerate le perdite in itinere non trascurabili, per permeabilità delle strutture o per sottrazioni abusive) circa 1 milione di metri cubi al giorno intorno al 200 d.C., una volta cioè costruiti tutti gli otto acquedotti principali, valore pari a circa la metà di quanto perviene attualmente: valore elevatissimo rapportato alla popolazione di allora (altro dato molto incerto che viene indicato in 400.000/500.000 abitanti), a conferma del largo "spreco" dovuto al sistema di acqua fluente accennato e alle "mostre" e altri usi decorativi.
A conferma di tale valore Frontino attribuisce alla propria attività di curator aquarum il recupero di 0,5 milioni di metri cubi al giorno con l'occlusione delle derivazioni abusive, pari a un terzo della disponibilità, e sembra identificare anche la seguente distribuzione fra i vari utenti romani: servizi imperiali 17%, servizi pubblici 44%, utenti privati 39%.
Vale la pena di osservare che questa ricchezza d'acqua contraddistingue una civiltà che era il compendio di quella precedente, della Grecia e in particolare del vicino Oriente, caratterizzate, invece, anche per motivi climatici e geologici, da una particolare parsimonia nell'uso civile e potabile di tale elemento.
Del resto va osservato, a confronto di tale sistema ad acqua fluente da tempo abbandonato, che il costo delle opere di trasporto, sia in cunicoli sia in canali pensili, era poco dipendente dalla portata trasportata in quanto le sezioni minime, e in genere idraulicamente sufficienti, dipendevano sostanzialmente dalla loro eseguibilità e dalla conseguente manutenzione: quindi tale sovrabbondanza da zone assai ricche di sorgenti non pativa di gravi contraddizioni economiche. Queste infatti sono proprie del trasporto a gravità di portate dell'ordine di (molti) metri cubi al secondo, e, particolarmente, con condotte, trasporto tipico degli acquedotti moderni dotati spesso di impianti di sollevamento.
Merita ricordare che nella Roma papale, in particolare dopo il 1870 (arrivo dell'acqua Marcia) e per oltre cento anni (e forse anche in altre città) la distribuzione a "bocca tassata" montava il sistema romano: alimentazione di una vaschetta (un piccolo castellum) posta nelle soffitte, ripartitrice fra le utenze private attraverso altrettanti serbatoi (cassoni), con sfiori di acque reflue alle fontane della lavanderie poste nella cantina, mentre dalla colonna montante l'utente poteva attingre acuq diretta attraverso un rubinetto tarato. Come nelle preaccennate più rudimentali reti romane il funzionamento era in moto uniforme pressoché continuo e quindi con pressioni locali in rete pressoché costanti.
La gestione romana degli acquedotti
Assai poco si è potuto conoscere dei criteri di gestione delle risorse idriche nelle civiltà più antiche mancando un supporto letterario alle piuttosto scarse vestigia delle opere: quanto meno per utilizzazioni civili in quanto meglio note sono le utilizzazioni agricole che erano alla base dei grandi imperi mesopotamici e faraonici. Le fonti letterarie latine citate (Vitruvio, Frontino) e il ricco patrimonio epigrafico illustrante ampiamente come il sostegno della vita delle metropoli dell'impero romano, realizzate secondo un modello urbanistico a servizio dei cives romani e delle genti tributarie, era costituito non solo dalla complessa rete di edifici pubblici e di manufatti idraulici al loro servizio ma anche da una magistratura specifica competente su tutte le reti idriche, organizzata capillarmente per assicurare, oltre alla costruzione, la continuità e la sufficienza dell'esercizio, la ripartizione fra le varie destinazioni e la fiscalità relativa, la manutenzione. I testi pervenuti su pietra o su codici dettagliano la costruzione e la gestione, specificando tutti i livelli dell'amministrazione preposta, dall'imperiale curator aquarum - o dai suoi predecessori o successori - fino agli operai-schiavi. Tale assidua attenzione alle opere idrauliche costituisce un unicum nelle antiche civiltà, che pure avevano anticipato manufatti specifici per l'approvvigionamento idrico. Il modello urbanistico romano, perfetto nella ricchezza di edifici destinati ai diversi istituti civili e militari e ai servizi della comunità, e servito abbondantemente di acque, dovette attendere molti secoli in Occidente, per essere reinventato in epoche a noi più vicine; queste sono state e sono attualmente più attente al problema dello smaltimento delle acque usate che a quello dell'approvvigionamento: teoricamente risolto con opere del tutto analoghe a quelle romane, eccettuati, ovviamente, i grandi progressi nella tecnologia delle tubazioni nonché nell'impiego diffuso degli impianti di sollevamento, e - più di recente - degli impianti di potabilizzazione, fino alla dissalazione dell'acqua salina.
Il complesso sistema degli acquedotti di tutto l'Impero e dell'amministrazione che li gestiva, oggetto del grande orgoglio manifestato da Frontino, in paragone con gli altri monumenti "romanamente" definiti "inutili" di altre civiltà - può addirittura esser considerato come epitome della civiltà romana: così come il taglio degli acquedotti dell'urbe da parte del goto Vitige (527) può essere simbolicamente considerato il segnale del tracollo finale dell'impero, mentre un progressivo, sospettato avvelenamento da piombo (saturnismo) potrebbe essere ritenuto la causa della decadenza caratteriale dei romani, costretti ad arruolare barbari "addomesticati" contro nemici sempre più invadenti, mentre si sfaldavano tutte le istituzioni civili.
In Occidente la civilizzazione successiva assunse caratteristiche rurali e feudali per gran parte del Medio Evo, cosicché la cultura degli acquedotti sostanzialmente scomparve nel tempo fino all'insorgere delle nuove urbanizzazioni. Non sembra inutile richiamare come la contemporanea civiltà islamica raggiunse livelli di eccellenza nella gestione delle acque non solo per usi irrigui ma a servizio delle proprie popolose città, anche sotto questo aspetto rielaborando culture antiche, altrove disperse.
Come considerazione conclusiva sui sistemi acquedottistici romani si può sottolineare come, pur in mancanza di specifiche e analitiche conoscenze tecnico-scientifiche, i romani seppero risolvere i problemi dell'alimentazione urbana con genialità e capacità realizzatrice e gestionale eccezionale.
Considerazioni finali
In generale, dal punto di vista tecnico si può affermare che la filosofia degli acquedotti antichi più evoluti destinati al trasporto si è mantenuta fino ai nostri tempi pur con differente prevalenza rispetto all'antichità fra le differenti fonti (sorgenti, acque sotterranee, invasi, acque superficiali, grazie alla possibilità di trattare acque anche contaminate, a seconda delle situazioni idrogeologiche) e fra le diverse strutture (canali/tubi in pressione/gallerie/strutture pensili, con tendenza all'uso prevalente di tubazioni e - per grandi portate - di gallerie). Le reti di distribuzione si sono invece estese a tutti gli utenti, fruitori di erogazioni discontinue libere, ed hanno quindi determinato la necessità di serbatoi aventi la funzione regolatrice fra afflussi pressoché constanti e deflussi molto variabili nel tempo; e hanno pressoché annullata la presenza di torrini (castella) grazie al progresso nello studio del funzionamento di estesi reti in pressione a utenze servite con contatore. Peraltro difficoltà anche economiche nel reperimento o nel trattamento di risorse sembrano diffondere dalle Americhe il sistema "duale" già applicato in età preromana: acquedotti (e reti distributrici) per acque di uso genericamente civile e distribuzione di recipienti per acqua specificamente di uso potabile.
Prof. Ing. Lodovico de Vito
1956 - 2024
68 anni di ingegneria dell'acqua
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